EREDITA' E TEMPO: LA LEZIONE SEGRETA DEL PRIMO MAGGIO

          



La festa del Primo Maggio ci invita a una riflessione profonda non solo sul lavoro in sé ma su qualcosa di più fondamentale: il nostro rapporto con il tempo. 

E' "lui" che passa o siamo noi? Questo mio scritto vuole risponde a questa domanda, ma arriviamoci per gradi.

Il tempo: seppur invisibile, viene considerato generalmente il bene più prezioso che si ha, salvo poi tradirlo in continuazione. Siamo diventati dei "cronofagi": divoriamo giorni, minuti, anni senza dargli troppo valore, scrollando compulsivamente schermi luminosi o inseguendo distrazioni che, paradossalmente, ci lasciano con la costante sensazione di non averne mai abbastanza. 

Riflettendo sull'esperienza del tempo ci accorgiamo che essa è intrinsecamente duale: da un lato siamo immersi in un tempo ciclico, ritmato dall'alternanza del giorno e della notte, e dal susseguirsi delle stagioni – un tempo che, nella sua eterna ricorsività, rimane paradossalmente "fermo", pur essendo in continuo movimento. 

Dall'altro lato, siamo noi stessi la manifestazione di un tempo lineare, come una freccia scoccata verso un bersaglio inesorabile. 

Eppure, mentre la nostra freccia vola, possiamo fare in modo che non vada solo in orizzontale, simbolicamente dalla nascita alla morte, ma che, in contemporanea, salga anche verso l'alto e nelle profondità del nostro essere. Perché, per quanto si vada lontano, ognuno in fondo lo sa: il vero viaggio è sempre interiore. Non è dunque il tempo in sé ad essere prezioso, ma ciò che noi siamo nel tempo. La qualità del tempo è la qualità della persona che lo vive e lo plasma. 

Così come la fisica ci insegna che il tempo entra nello spazio attraverso la materia, così anche noi portiamo il nostro "tempo" negli ambienti che abitiamo e attraversiamo. Ogni stanza, ogni posto si impregna delle nostre azioni, delle nostre parole, dei nostri stati emotivi. La nostra presenza lascia un'impronta indelebile sul circostante, una traccia che permane anche quando fisicamente non ci siamo più.

Ma allora la domanda chiave diventa: chi forma i formatori (ossia noi esseri umani)? Oggi quasi nessuno, dato che sono tutti già de-formati o con-formati. Eppure quella a cui ognuno è chiamato è una scelta cruciale: decidere se lasciare migliore o peggiore la dimora dopo il proprio passaggio. Questa scelta si manifesta nell'ordine che costruiamo e preserviamo o nel disordine che favoriamo con fare complice.

La dialettica tra ora et labora, tra ozio e negozio, tra produzione e celebrazione, è in ultima analisi una questione di come scegliamo di abitare il nostro tempo e di quale significato gli attribuiamo. In un'epoca in cui l'accelerazione sembra essere diventata l'unica tempistica possibile, come nella famosa scena di Tempi Moderni di Charlie Chaplin, fermarsi a riflettere sul senso e il tempo del lavoro e della  festa è decisivo.

Il lavoro stesso, in questa prospettiva, assume un significato che trascende la mera produzione: è un modo di abitare il tempo, di lasciare un'impronta nel mondo, di manifestare la nostra essenza più profonda - invisibile agli occhi come è scritto nel Piccolo Principe - attraverso ciò che creiamo.

Possiamo qualificare il nostro tempo con progetti d'amore e di crescita, di sogni concreti – oppure possiamo sperperarlo in pettegolezzi, nelle critiche sterili, nelle chiacchiere che non edificano né noi né gli altri. Socrate, con il suo celebre triplice setaccio, chiedeva agli interlocutori: "Ma se ciò che vuoi dirmi non è verificato, né buono, né utile, perché me lo vuoi dire?" Eppure tutti lo fanno. 

Le scoperte della fisica quantistica sulla curvatura del tempo hanno rivelato che non viviamo in una dimensione rigida e immutabile. La percezione del tempo è influenzata dalla nostra osservazione partecipe. Ne hanno fatto tutti esperienza: l'ultima ora di scuola sembra non passare mai per lo studente impaziente, mentre il primo bacio vola in un istante pur rimanendo eternamente impresso nella memoria.

Questa relatività dell'esperienza temporale suggerisce che la "quantità" di tempo a nostra disposizione è meno importante della sua "intensità" – di quanto significato, bellezza e verità  riusciamo a concentrare anche in brevi intervalli.

È significativo notare come l'antico calendario romano, pur appartenendo a un popolo estremamente attivo, conquistatore e pragmatico, fosse pieno di giorni di festa atti alle celebrazioni e ai rituali. I Romani avevano compreso una verità fondamentale: un tempo completamente desacralizzato, ridotto a mera produttività, finisce per perdere senso e significato e quindi, in ultima istanza, è molto meno produttivo di quel che appare. La festa, il rito, il momento sacro non sono un'interruzione del lavoro, ma ciò che gli conferisce significato.

Questa lezione storica ci parla direttamente oggi: il lavoro privo di una narrazione etica che lo trascenda, diventa insostenibile, per quanto possa essere ben remunerato.

Vale la pena ricordare qui la celebre storiella dei tre operai. Al primo fu chiesto: cosa fai? Quello rispose: mi spacco la schiena. Il secondo rispose: porto a casa il pane per la mia famiglia. Il terzo disse: costruisco una cattedrale. La nostra vita non è composta solamente da ciò che facciamo, ma anche da come ce la raccontiamo. Un vecchio proverbio ebraico aggiunge: Dio ha creato il mondo perché gli piacciono le storie. 

Peccato che, nella società attuale, il lavoro si sia progressivamente svuotato della sua dimensione narrativa: non più vocazione o mestiere, ma spesso solo occupazione priva di un orizzonte di senso. La Festa del Lavoro ci invita a recuperare questa narrazione perduta, a ricordare che ogni professione, per quanto umile, può essere portatrice di significato quando si inserisce in un progetto più grande di noi.

Allargare, alzare, approfondire l'orizzonte temporale è fondamentale, perché solo chi intesse un rapporto privilegiato con il tempo, dentro e fuori di sé, può espandere il suo stato di coscienza e il suo raggio d'azione nello spirito del presente.

L'essere umano possiede infatti un'arma potente contro la sua finitudine che troppo spesso, ironicamente, dimentichiamo: la memoria. Attraverso di essa, possiamo accedere al passato per attualizzarlo, trasformando un antico insegnamento in una nuova comprensione, un vecchio dolore in una rinnovata saggezza, un avvenimento storico in una punto di partenza per un nuovo evento da vivere, rinnovato, nel presente. 

Grazie alla memoria, e alla parola che la fissa, possiamo lasciare di noi tracce durature nelle menti e nei cuori di chi ci sopravvivrà. È forse questo il vero scopo del tempo: non semplicemente scorrere verso la fine, ma consentirci di eternizzarci attraverso il ricordo che siamo capaci di lasciare.

"Fate questo in memoria di me," dice Cristo nell'ultima cena – parole che racchiudono una profonda verità esistenziale: anche la morte fisica può essere trascesa attraverso la memoria. Questa dimensione memoriale dell'esistenza non è accessoria, ma costitutiva dell'esperienza umana: siamo esseri che ricordano e che desiderano essere ricordati.

La memoria, tuttavia, è selettiva, specialmente quella pubblica: non tutto viene ricordato, ma solo ciò che ha un valore, un significato, una rilevanza. Se la nostra vita è una freccia scoccata verso un bersaglio, è urgente iniziare a domandarci: quale è la meta che stiamo puntando? Perché da un punto di vista puramente materiale, lo sappiamo, il destino è inevitabilmente la morte. Ma in una prospettiva più ampia, spirituale e collettiva, questo apparente limite può essere capovolto in un'opportunità di memoria duratura.

In fondo, la qualità e la "giustezza" della nostra esistenza possono essere valutate solo alla luce della finalità che perseguiamo. Quando Machiavelli afferma che "il fine giustifica i mezzi", non intende la banale giustificazione di qualsiasi azione purché volta a un fine utile, quanto invece proprio questo: se sapremo essere mezzi giusti per una causa nobile e superiore, allora il nostro tempo sarà qualificato e, con esso, noi stessi che siamo fatti (quasi) interamente di tempo.

È questa la vera eternità a cui possiamo aspirare: non l'illimitata durata della vita, oggi estesa sempre di più a sovraccaricare il nostro sistema sanitario, il nostro welfare in affanno contro una sterminata senilità, quasi un accanimento terapeutico per evitare l'inevitabile. Quando invece è proprio grazie alla finitezza che possiamo lavorare per conferire un senso alla nostra vita. Se fossimo eterni, ogni gesto, ogni creazione, ogni relazione si diluirebbe nell'infinito, perdendo il suo peso specifico, la sua pregnanza, la sua urgenza. 

La nostra lingua questo lo suggerisce chiaramente: di una miniatura in ceramica diciamo che è "rifinita". Solo nel concetto di fine c'è la possibilità di un fine.

La cultura antica ha inventato le Parche, tre donne misteriose che tenevano il filo del destino degli umani: passato, presente e futuro. Quando il filo è terminato nessuno può più allungare la vita a nessuno. E meno male!

Come scrisse Montale: "se è duro il pensiero della morte, quello che il tutto dura è il più pauroso." 

Perché è il limite temporale a rendere preziosa ogni ora, ogni incontro, cruciale ogni scelta. La morte non è l'opposto della vita ma la sua cornice, il confine che ne definisce i contorni e ne esalta la tavolozza dei colori.

In questo Primo Maggio, celebrando il lavoro, celebriamo anche questa consapevolezza: nel tempo limitato risiede il nostro più grande spazio di lavoro – quello di trasformare l'effimero in eterno, il quotidiano in memorabile, il lavoro personale in opera per la comunità. In altre parole, è il tempo stesso ad essere una festa, la stessa vita umana.

Mi piace pensare che sia questo il lavoro a cui fa riferimento l'articolo I della nostra Costituzione, un lavoro da cui non c'è vacanza e non c'è pensione perché è parte integrante di noi stessi. E' questo il lavoro che nessuna intelligenza artificiale potrà mai sostituire: l'essere umani. Ogni giorno di più.

Un lavoro che comprende anche la sua celebrazione, così come il respiro che ci tiene in vita è fatto costantemente di due movimenti, inspirazione ed espirazione.

Come Odisseo, il padre del pensiero mediterraneo, che decide di lasciare l'isola di Ogigia nonostante la ninfa Calipso gli abbia concesso l'immortalità, così anche noi dobbiamo rimetterci in viaggio verso la nostra Itaca – la nostra vera dimora del senso.

Prendiamoci questo giorno di festa per focalizzare chi siamo, dove stiamo andando, e come vorremmo essere ricordati. E' qualcosa che ha a che fare con i propri doveri autentici e profondi e con il proprio spirito di servizio alla collettività.

Non è una virtuale eternità a realizzarci, ma "l'altezza" del cammino, la trama di significati che tessiamo nel tempo finito che ci è dato, cercando di trasformare un'esistenza limitata in una perpetua eredità. 

Buon Primo Maggio a tutti! 


Un articolo di Fulvio Benelli




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