LA DURA CORSA DEL GIORNALISMO (POCO) LIBERO


Se mi chiedessero chi è stato il primo cronista della storia dell’Occidente risponderei Filippide.

Il messaggero che, secondo Plutarco, percorse i 42 km che separano Maratona da Atene per portare la notizia della vittoria che mise in fuga la flotta persiana.

Questo episodio dimostra che, fin dalle origini, l’informazione è principalmente uno strumento di comunicazione strategica al potere.

Ma è in tempi di pace che la campagna d’informazione diventa più pervasiva. Perché la guerra – che sia civile o dei dazi, lampo o dei cent'anni, fredda o elettorale – è sempre in agguato.

Per lungo tempo la cosa era addirittura dichiarata: i giornali erano apertamente fogli di partito, strumenti di propaganda dei vari “ministeri della guerra”.

Poi è arrivato Pulitzer che ha inventato la stampa libera.

Solo che presto ci si è resi conto che libera lo era per modo di dire perché dipendeva dagli inserzionisti e dagli interessi dei grandi gruppi commerciali.

Non si era risolto il problema, lo si era solo spostato dall’influenza politico-militare a quella economica che con la prima va sempre a braccetto.

Quando oggi sento un cronista affermare che nessuno gli ha mai detto di cosa parlare, penso che il poveretto è talmente "embedded" da non essersi trovato mai, nemmeno una volta, ad andare contro gli interessi del “padrone”.

In fondo, è il metodo più efficace di controllo: quello in cui il controllato ha interiorizzato i divieti imposti e li riconosce come assolutamente congeniali.

La verità è che il giornalismo si trova da sempre schiacciato tra la tracotanza di un potere che lo domina finanziariamente e la sordità addormentata di un pubblico la cui bestialità si è resa ancora più visibile sui social.

Una situazione di cui il primo responsabile è proprio il giornalismo, che invece di lavorare per creare menti sempre più libere e critiche (anche verso se stesso), fomenta il tifo da stadio, mentre intanto si rinchiude in quei salotti dove una cricca si spartisce il potere parlandosi addosso.

Quando invece l’in-formazione, quella autentica, è il processo sacro e universale che permette al mondo di venire compreso per quello che è, cogliendo nelle sue infinite trasformazioni lo svolgersi di un’unica narrazione che lo sottende.

Non c’è bisogno di meno informazione, come sostiene qualcuno: serve informazione più qualificata, ed è una responsabilità che riguarda tutti.

Per risalire la china, bisognerebbe per prima cosa mettere mano al problema dell’equo compenso e del precariato, che sono le peggiori piaghe del giornalismo odierno.

Tanti bravi cronisti sono privati ad arte di un welfare serio, e delle più basilari tutele in difesa del proprio lavoro. Vedi le querele temerarie. Ma anche la dipendenza dalla suddetta cricca che decide se rinnovarti o meno un contratto.

C’è la possibilità che ci sia qualche eccezione alla regola, ma di solito le eccezioni tollerate sono quelle che, senza creare problemi troppo in alto, tornano buone per rivestire con una spruzzata d'oro la ferraglia che c'è dietro.

Come se ne esce? Ci vorrebbe qualche imprenditore illuminato che faccia rete e si adoperi per finanziare una piattaforma editoriale dall’alta reputazione (tipo ProPublica), dove si proponga un’informazione aperta e di qualità, affiancata da un doveroso riconoscimento e un dignitoso compenso.

In un mondo che ha spalancato le porte all’Ai, che renderà impossibile distinguere il falso dal vero, c’è urgenza che venga creato un santuario del confronto libero dove la verità materiale, sempre provvisoria e mai definitiva, possa emergere attraverso il dubbio metodico e l'onestà intellettuale.

Attendendo che questo avvenga, oggi dobbiamo cercare di raccogliere e confrontare in modo scelto e responsabile le notizie da più angolature possibili: dai media mainstream fino ai sottoboschi del web la vera ricchezza è la pluralità.

Una pluralità che non significa relativismo o equivalenza di tutte le fonti, ma riconoscimento che il rigore e l’etica non sono monopolio di una casta professionale, bensì virtù accessibili a chiunque si impegni nella ricerca.

Non c’è per me definizione più eversiva di: “informazione ufficiale”. Come, per esempio, si auto-definirono in uno spot durante la pandemia i principali media italiani, che intanto negavano violentemente ipotesi che poi si sono rivelati fatti.

Quello delle fake news è un problema serio e va combattuto ma è semplicistico pensare che basti il blasone di una testata per mettersi preventivamente al riparo dall’errore.

L’articolo 21 della Costituzione assegna a tutti i cittadini la dignità della parola; per questo va guardato con interesse il fenomeno dei citizen journalists che, armati solo di smartphone o taccuino, coprono molti eventi in modo più incisivo e autentico di tanti media tradizionali.

Allargando il campo, basti pensare a come i vari imperialismi si servano del soft power su larga scala: vedi Russia Today, Al Jazeera, Bbc Word, China Global Television Network, Jerusalem Post, Voice of America…

…quando queste bocche di fuoco sputano, tutti gli altri media del globo gli vanno dietro come missili, inseguendo ciò di cui parlano tutti, senza nemmmeno essere consci da dove viene l’input e perché.

Lo vediamo tutti i giorni: ora si parla solo -ma in modo antitetico in base agli interessi- dei conflitti a Gaza, in Ucraina o in Siria, mentre guerre "di serie B" in Yemen, Sudan, Myanmar e molti altri paesi restano quasi del tutto nell'ombra.

Perché, in generale, più importante delle notizie che si danno sono le notizie che non si danno.

E torniamo così al nostro caro Filippide. L’uomo che corre fino allo stremo per testimoniare una notizia urgente e decisiva per i cittadini rappresenta per me l'archetipo della vera informazione - disposta a sfidare ogni rischio per portare alla luce ciò che deve essere conosciuto.

Il messaggero, dopo aver stoicamente dato la notizia, è stramazzato a terra, morto per il troppo sforzo. E in suo onore hanno inventato la maratona.

Che può essere definita come una lunga e pacifica guerra di resistenza per sfidare i limiti umani.

Proprio come la ricerca della Verità.


Un articolo di Fulvio Benelli

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