LA FORZA NON E' VIOLENZA




Nel mondo classico l’Europa è nata da un mito fondativo: Giove si innamora della principessa Europa, si trasforma in toro bianco, la rapisce e la porta a Creta, dove nascono tre figli destinati a diventare re.

Il nome “Europa” ha diverse interpretazioni: dal greco “eurys-ops” – suggerendo uno sguardo ampio, una visione che abbraccia l’orizzonte – oppure c’è una versione di stampo tradizionale che indica “eu-rope”, “ben condotta”, evocando l’idea di una civiltà guidata dalla saggezza.

Traducendo l’energia di questo mito nel nostro linguaggio moderno, potremmo ipotizzare che gli antichi avessero riconosciuto il genius loci del Mediterraneo.

Ci stavano rivelando che questo è il luogo dell’intelletto, delle possibilità, delle diversità, della giustizia, dell’espansione dei saperi – qualità tutte attribuite al padre degli dei.

Nel mito, Europa non viene conquistata con la violenza ma rapita dalla forza trasformativa del divino, diventando madre di una civiltà nuova.

Questo pensiero ha trovato la sua incarnazione perfetta nei romani, che hanno perseguito il sogno di trasformare il mondo in una sola città. Pur rispettando le peculiarità antropologiche dei popoli, hanno portato ovunque un linguaggio comune, un calendario condiviso, un modo di vivere civile.

Certo, i romani hanno fatto guerre – è innegabile – ma, al netto dei tempi mutati, occorre considerare che mentre portavano gli eserciti al fronte, edificavano già la rete di strade che ancora oggi connette le nazioni europee, simbolo di una trasformazione migliorativa così evidente che nessun popolo, una volta integrato nell’impero è mai tornato volontariamente alla condizione precedente.

Quando invece è venuta meno la forza aggregatrice di Roma – la sua idea, la sua narrazione – ogni popolo che era stato civilizzato (gli alemanni, i celti, i galli…) ha rivendicato quell’identità come propria, sbranandone i resti per proclamarsi unico erede legittimo.

Questo atteggiamento ha avverato un confitto interno permanente che ci ha sfibrato a tal punto che, dopo la seconda guerra mondiale, ci siamo consegnati mani e piedi agli Stati Uniti. Oggi ci governano in modo capillare, tanto che a Bruxelles siamo costretti a parlare inglese, lingua che – considerata l’uscita del Regno Unito dall’Unione – non è nemmeno più una lingua europea. Un paradosso indigeribile.

Qui non si tratta di essere hippie o pacifinti, ma di comprendere e riaffermare la missione dell’Europa nel mondo.

Quando l’umanità ha iniziato a creare società complesse, ha liberato alcuni individui dal ciclo tirannico della produzione.

Sono così emersi sacerdoti, artisti, ricercatori. Nessuno sognerebbe mai di far imbracciare a costoro un fucile. E non perché siano deboli, ma perché esprimono una forza di natura completamente diversa – una forza che le comunità civili riconoscono e in cui investono.

Vale lo stesso per i popoli, nel grande coro dell’umanità.
E allora mi chiedo: quali sono oggi i valori spirituali europei su cui vogliamo investire?

Non parlo del cristianesimo, che pur avendo rappresentato per lungo tempo, quando il potere politico è tramontato, la forza perdurante di Roma, è oggi ormai per lo più un apparato istituzionale distante dalla sua vocazione originaria. Parlo dei nostri valori autenticamente condivisi. Dell’idea che ci guida, della narrazione che ci autodefinisce.

Il passato è passato e non torna mai identico ma sapere chi erano i padri ci aiuta a programmare in continuità il futuro per i nostri figli.

Questo è un momento straordinario per ridefinire la nostra identità. Vogliamo finalmente rivendicare la nostra vera forza o inseguire la violenza altrui (americana, russa, cinese), sapendo già che saremo sempre secondi in questa corsa?

Vogliamo creare istituzioni davvero unitarie oppure continuare a spartirci alla bell’e meglio interessi economici di corto respiro?

Chi ci trascina verso questa deriva è un traditore dell’idea europea, si è già venduto per interesse ai “nemici”.

Ma non ci accorgiamo che la narrativa della “minaccia imminente” è amplificata dagli stessi complessi militari-industriali che ne traggono profitto?
Una profezia che si auto avvera.

La contraddizione è evidente: nell’inseguire potenza militare per “proteggere i valori europei”, rischiamo di sacrificare proprio gli antichi valori sull’altare di una sicurezza illusoria.

Le vere sfide del nostro tempo – crisi climatica, disuguaglianze sistemiche, migrazioni – non possono essere risolte indebitandoci con cannoni e missili (quando altri hanno il nucleare, poi) ma richiedono soluzioni collaborative e diplomatiche che solo una cultura del dialogo può generare.

No, la forza non è e non sarà mai violenza. La forza è cultura. Parola intrecciata semanticamente con “culto”, perché porta in sé l’adesione a un’idea di ordine superiore. Come le stelle sulla nostra bandiera.

Questa è la vera eredità del mito di Europa: non la conquista brutale ma la trasformazione attraverso la virtù e la conoscenza, verso una visione del mondo che sappia universalmente accogliere e integrare.


Un articolo di Fulvio Benelli

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